Nel 2013, James Comey (Jeff Daniels), nonostante le sue dichiarate simpatie repubblicane, viene nominato direttore del FBI da Barack Obama (Kingsley Ben-Adir). Di lì a poco, si vedrà costretto a indagare sull’uso scorretto delle e-mail da parte di Hillary Clinton e sul cosiddetto Russiagate.
Nazione: Stati Uniti
Anno: 2020
Episodi: 2
Piattaforma: Sky Atlantic
Genere: Drammatico
Ideatore: Alex Kurtzman
Attori: Jeff Daniels, Holly Hunter, Michael Kelly, Jennifer Ehle, Scoot McNairy
Abbiamo letto diverse recensioni su The Comey Rule, miniserie in due parti prodotta da Showtime e trasmessa da poco su Sky Atlantic e, sorprendentemente, in molte di esse si critica la sfacciata partigianeria dei suoi autori, che avrebbero trasformato Donald Trump in una caricatura, o, peggio, in una sorta di emissario del male. Peccato ancora più grave, per costoro, è aver mandato in onda i due episodi a poche settimane dalle elezioni americane, quasi un’ammissione, quindi, di aver realizzato un prodotto studiato a tavolino per influenzare la corsa dei due candidati alla presidenza (in realtà, inizialmente la miniserie avrebbe dovuto essere trasmessa dopo le elezioni, ma pare che i vertici del network siano stati costretti a cambiare idea su pressione degli autori e dei membri del cast). Ora, vedere l’attuale inquilino della Casa Bianca dipinto come una sorta di irascibile capo azienda, assolutamente incurante dei protocolli e delle istituzioni, o addirittura pronto ad alleanze poco trasparenti con potenziali nemici della nazione, senza contare il suo continuo bollare come fake news gli attacchi contro la sua persona, potrebbe effettivamente far sembrare quei giudizi negativi parzialmente giustificati, soprattutto quando The Donald viene contrapposto a Barack Obama, del quale viene fatta trasparire chiaramente l’elevata statura politica e morale. Pensare, però, che si possa ignorare la realtà o fare finta che gli Stati Uniti non siano governati da quattro anni da un personaggio del genere, vorrebbe dire privare gli artisti della possibilità di andare oltre la semplice ricostruzione documentaristica o chiedere loro di soffocare la propria creatività in nome di un’insincera imparzialità. Tra l’altro, infischiandosene della disapprovazione di qualche benpensante, per aver deciso di prendere una posizione così netta, Showtime ha dato l’impressione di voler rigirare il coltello nella piaga, dato che pochi mesi prima aveva portato sul piccolo schermo le malefatte di Roger Ailes (nella miniserie The Loudest Voice, con un grande Russell Crowe), fondatore di Fox News e tra gli artefici dell’elezione di Trump. Appurato, quindi, che The Comey Rule non è un’opera imparziale, può questo essere considerato un fattore così determinante da comportarne la bocciatura? Secondo noi no, anche perché, se così fosse, praticamente tutti i biopic riguardanti figure storiche o di attualità di un certo rilievo dovrebbero essere giudicati nello stesso modo. Nell’appena citata The Loudest Voice, per esempio, l’immagine che viene data di Trump non è per nulla benevola, eppure, nessuno ha gridato allo scandalo, così come sono stati ben pochi i critici che hanno avuto da ridire sul ritratto poco edificante di George W. Bush fatto da Oliver Stone o quello ancora peggiore di Dick Cheney in Vice di Adam McKay. In sostanza, tolti i giudizi della stampa statunitense, dove la polarizzazione degli schieramenti in questo momento è tale da non permetterci di capire se i recensori siano scevri da pregiudizi o meno, anche solo guardando in casa nostra, molte valutazioni ci sono sembrate affette da un’evidente ipocrisia, quasi a voler cercare di ridimensionare a tutti i costi una produzione dove, in realtà, la rappresentazione dell’attuale presidente americano è solo uno dei tanti aspetti da prendere in considerazione e neppure il più importante. Ci sarebbe piaciuto, infatti, che a Billy Ray, regista e sceneggiatore della miniserie, venisse riconosciuto il merito di essere riuscito a realizzare una sincera celebrazione di tutte quelle persone, perlopiù destinate all’anonimato, orgogliose del ruolo istituzionale che ricoprono e intente solo a servire al meglio il proprio paese, senza inseguire a tutti i costi la luce dei riflettori. Persone che incarnano i valori fondanti della nazione e delle quali James Comey è sicuramente uno degli esempi più importanti degli ultimi anni. Sono la sua integrità e il suo senso del dovere a emergere con forza, virtù che non vengono meno neppure di fronte alla consapevolezza che le sue azioni sarebbero potute risultare determinanti sull’esito della competizione elettorale tra Trump e Hillary Clinton. Inoltre, sebbene l’ex direttore del FBI occupi quasi sempre la scena, il messaggio di Ray viene rafforzato dalla presenza di alcune figure secondarie, permeate dai suoi stessi principi morali (su tutte, il viceprocuratore generale Sally Yates, a cui presta il volto un’intensa Holly Hunter). In fin dei conti, quindi, la presenza di The Donald serve solo come contraltare negativo di costoro, affinché i loro meriti non passino inosservati. Proprio per queste ragioni, più che Trump, di fatto solo un’anomalia passeggera, il personaggio da guardare veramente con disprezzo dovrebbe essere il “funzionario” Rod Rosenstein (un efficace Scoot McNairy, visto qualche mese fa nell’ultima stagione di Narcos), uomo senza carisma e meschino, che, accecato dal prestigio derivante dal suo nuovo incarico a Washington, diventa un semplice burattino nelle mani della cricca del presidente.
Ora, alcuni potrebbero ancora affermare che ci sarebbe stato bisogno di un approccio più obiettivo da parte degli autori, poiché I fatti raccontati nella miniserie sono ripresi dal libro A Higher Loyalty: Truth, Lies and Leadership, dello stesso Comey. In realtà, secondo noi, è vero esattamente il contrario: una volta scelta la fonte, non si può metterne in discussione l’attendibilità attraverso goffi tentativi di par condicio.
Ci sarebbero tante altre riflessioni da fare, ma preferiamo chiudere con una breve considerazione sui due attori principali. Innanzitutto Jeff Daniels, che si cala nella parte del protagonista in maniera esemplare, con una recitazione equilibrata e priva di eccessi, lasciando che siano le espressioni del suo volto a parlare per lui. Esattamente l’opposto di Brendan Gleeson, a cui spetta l’onere di impersonare Trump. Un compito improbo, con in più il forte rischio di non riuscire a evitare l’effetto parodia, quanto mai inopportuno in una produzione di questo tipo. L’attore irlandese, però, è bravo a non calcare troppo la mano, e nonostante i giudizi di cui dicevamo all’inizio, ci è sembrato persino meno macchiettistico dell’originale, a cui, in verità, nemmeno il più istrionico degli interpreti potrebbe rendere giustizia.
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