Dieci anni prima dell’inizio della missione quinquennale della USS Enterprise, il primo ufficiale Michael Burnham (Sonequa Martin-Green) della USS Shenzou entra casualmente in contatto con alcuni Klingon, una razza aliena guerriera di cui non si avevano più notizie da oltre un secolo. Sarà l’inizio di una catena di eventi che porterà a un conflitto tra il rinato Impero Klingon e la Federazione dei Pianeti Uniti, la quale metterà in campo anche il gioiello della sua flotta: la USS Discovery.
Difficile dire se questa prima stagione di Start Trek: Discovery abbia davvero accontentato tutti i trekker sparsi per il mondo. Di sicuro lo sforzo fatto dalla CBS per celebrare in maniera adeguata il cinquantesimo anniversario della serie originale (il primo episodio fu trasmesso nel 1966) è stato più che apprezzabile. Innanzitutto per il budget altissimo (ogni episodio è costato in media la bellezza di 8 milioni di dollari, coperti in parte da Netflix per assicurarsi la distribuzione in esclusiva all’estero, e per il resto dai nuovi abbonati alla piattaforma streaming CBS All Access, che ha trasmesso la serie negli Stati Uniti), ma soprattutto per il coinvolgimento nella creazione e nello sviluppo dello show di Alex Kurtzman, Bryan Fuller e Nicholas Meyer, tre persone che in tempi diversi hanno contribuito a espandere o a rinnovare l’universo nato dalla mente di Gene Roddenberry. Bryan Fuller, in particolare (che ha iniziato la sua carriera lavorando come sceneggiatore per Star Trek: Deep Space Nine e per Star Trek: Voyager), si è dimostrato da subito il più entusiasta del terzetto, e quello maggiormente deciso a recuperare lo spirito genuino della serie originale. E’ in questo senso deve essere letta l’introduzione del motore a spore, che alimenta la Discovery, una palese assurdità scientifica, che, però, omaggia quella fantascienza ingenua, tipica degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, portatrice di una visione così ottimistica del futuro, da essere esportata con successo da Next Generation in poi. Sempre a Fuller si deve, probabilmente, la decisione di far parlare a lungo i Klingon nella loro lingua. I dialoghi arguti e briosi tra i vari personaggi delle diverse serie, sono sempre stati una delle qualità di Star Trek. Qualità ben presente anche in questa nuova produzione, ma percepibile solo finché a parlare sono i membri della Federazione. I lunghi, pomposi e, onestamente, noiosi discorsi dei Klingon, per di più fatti in una lingua inesistente (che solo un geek come lo Sheldon Cooper di Big Bang Theory potrebbe apprezzare) sono sembrati una delle poche scelte discutibili del reparto creativo. Azzeccata, invece, la novità di non puntare solo su episodi autoconclusivi (una caratteristica delle precedenti serie di Star Trek), ma, piutttosto, su una trama più complessa, presente per tutta la durata della serie. In questo modo è stato possibile sia accontentare gli appassionati storici del franchise (a cui, nell’ultimo episodio, vengono regalate anche le note della mitica sigla degli anni Sessanta), che avvicinare allo show spettatori più avvezzi alla narrativa orizzontale della televisione moderna. Anche la morte senza troppi scrupoli di diversi personaggi cardine, un tabù persino negli spin-off degli anni Ottanta e Novanta, deve essere vista come un tentativo di andare incontro ai gusti del pubblico più smaliziato di oggi. Peccato solo che l’improvviso ridimensionamento di Fuller da showrunner a semplice produttore esecutivo (pare in seguito a disaccordi con i dirigenti della CBS sulla scelta dei registi dei vari episodi, sommati all’eccessivo impegno mostrato dallo sceneggiatore nella contemporanea realizzazione di American Gods per la concorrente Starz), e altri intoppi produttivi, che hanno fatto slittare di continuo la messa in onda dell’episodio pilota, fino ad arrivare alla fine del 2017 (perdendo, quindi, il traino dei festeggiamenti del cinquantennale della serie) abbiano rischiato di compromettere la riuscita finale dell’operazione. Non si spiegherebbero altrimenti diversi cortocircuiti della trama e un uso francamente eccessivo dei colpi di scena, che hanno non solo snaturato le premesse iniziali, ma anche reso sempre meno evidente il legame con la serie originale. E’ probabile che a questo abbia contribuito Kurtzman, uno dei principali sceneggiatori del reboot cinematografico di Star Trek, sicuramente più propenso a spingere verso un cambio di direzione più moderno. Una scelta più che condivisibile per il grande schermo, ma non così pertinente in una serie dove gli elementi classici avrebbero dovuto essere più che evidenti. A ogni modo, problemi di scrittura a parte, alla produzione va riconosciuto il merito di aver scelto gli attori in maniera molto oculata: da sottolineare, in particolare, le buone prove di Sonequa Martin-Green (la Sasha di Walking Dead), brava a mostrare i tormenti di una persona che, con le proprie azioni, ha, di fatto, provocato la morte della sua mentore, e contribuito all’inizio della guerra con i Klingon, e di Doug Jones, il cui volto completamente nascosto dal pesante make-up necessario a trasformarlo nell’alieno Saru (ormai una specialità di Jones. E’ lui a interpretare l’essere anfibio in La forma dell’acqua, fresco vincitore del premio Oscar come miglior film), non gli ha impedito di dare vita al personaggio più “roddemberriano” della serie. La sua positività e la sua purezza, così estranee agli esseri umani della Discovery (con l’importante eccezione della cadetta Sylvia Tilly, altro personaggio molto roddemberriano, ben interpretato dalla giovane Mary Wiseman) non possono che appartenere a un abitante di un altro pianeta. I Terrestri raramente mostrano le loro vere intenzioni, soprattutto in tempo di guerra. E l’incarnazione di questa ambiguità è perfettamente rappresentata dal capitano Gabriel Lorca, un efficace Jason Isaacs, non nuovo a personaggi in chiaroscuro. Potremmo continuare singolarmente anche con il resto del cast principale: Shazad Latif, Anthony Rapp e, ovviamente, Michelle Yeoh, ma basti dire che per lasciar spazio alle loro performance più che positive, molti degli attori di contorno vengono relegati a un ruolo di semplici comparse. Più pregi che difetti, insomma, che ci fanno sentire realmente autorizzati a promuovere questo nuovo rilancio, con la speranza di vedere un ulteriore salto di qualità nelle prossime stagioni.