FILM – RECENSIONE
Nazione: Stati Uniti
Anno: 2019
Durata: 119 min
Genere: Drammatico
Regia: Casey Affleck
Attori: Casey Affleck, Elisabeth Moss, Anna Pniowsky, Tom Bower
Voto Filmantropo:
In un futuro non molto lontano, la popolazione femminile viene quasi interamente sterminata da un virus sconosciuto. Un padre (Casey Affleck) è costretto a nascondersi nei boschi assieme alla figlia Rag (Anna Pniowsky), per evitare che quest’ultima finisca nelle mani degli ultimi uomini sopravvissuti.
Evidentemente nel DNA della famiglia Affleck alberga il gene del talento artistico. Di Ben (che, a dispetto dei suoi numerosi detrattori, quando si impegna non è neanche malaccio come attore) già conoscevamo le doti da sceneggiatore (ha vinto un Oscar nel 1997 per la miglior sceneggiatura originale del film Will Hunting, scritta assieme all’amico Matt Damon) e, più di recente, da regista (suoi sono i notevoli Gone Baby Gone e The Town, di cui è anche sceneggiatore, e, soprattutto, Argo, Oscar come miglior film nel 2013), mentre di Casey avevamo fin qui apprezzato le qualità recitative, culminate nel 2017 con l’Oscar come miglior attore protagonista in Manchester by the Sea. Light of my Life rappresenta il suo primo vero film da sceneggiatore e regista (nel 2010 aveva scritto e diretto il mockumentary Joaquin Phoenix-Io sono qui!), un’opera convincente sotto diversi punti di vista, che potrebbe farlo entrare di diritto nella lista degli autori più promettenti del cinema americano contemporaneo. Ciononostante, è bene sottolineare che la trama della pellicola, di per sé, è tutt’altro che originale: a parte l’idea insolita che possa nascere un virus che risulti letale solo per le donne, quante altre volte ci è stato raccontato di apocalissi prossime venture che riporteranno l’umanità alla barbarie? Senza scomodare la hit televisiva The Walking Dead, o andare troppo indietro nel tempo, le similitudini con The Road, film del 2009 di John Hillcoat, sono piuttosto evidenti (tanto da far storcere il naso a qualche critico). Affleck Junior, però, solo in apparenza sembra ripetere un tema già sfruttato da altri. Per lui, infatti, non conta molto mostrare di come l’istinto animale degli uomini prenda il sopravvento sul loro raziocinio (un aspetto che, comunque, non poteva essere tralasciato e che regala momenti di autentica tensione, soprattutto nel finale), ma, piuttosto, di quanto l’amore di un padre per la propria figlia lo porti, senza esitazioni, a concepire la sua esistenza solo in funzione della salvaguardia di lei. Anche questo, in realtà, potrebbe essere considerato un comportamento associabile all’istinto: la difesa della prole è, infatti, la priorità assoluta di ogni genitore. In definitiva, pertanto, la pellicola non fa che rimarcare come, in condizioni disperate, prevalgano atteggiamenti estremi, senza che, per alcuni, questo significhi rinunciare del tutto alla propria umanità. E’ altrettanto vero, però, che in uno scenario di questo tipo, la normalità non può che esistere solo per brevi momenti: uno di questi ci viene mostrato nella sua interezza proprio all’inizio, quando il padre (il nome del personaggio interpretato da Affleck non viene rivelato nel film) racconta alla figlia una lunga versione, volutamente e buffamente distorta, del diluvio universale. Quella scena, in apparenza troppo lunga, risulta, di fatto, essenziale a creare un forte contrasto con la terribile realtà post epidemia, in cui lo spettatore viene catapultato subito dopo e fino al termine della pellicola. A prevalere non ci sarà più l’intimità familiare, ma una fuga continua attraverso boschi desolati, case vuote, strade deserte, lunghe distese innevate. Tutti ambienti necessari a non far mai dimenticare l’estrema solitudine a cui sono condannati i due protagonisti. Di altre persone, infatti, se ne vedono poche (tutti uomini, naturalmente, a parte qualche breve flashback in cui compare la madre/moglie dei due personaggi centrali), quasi sempre ambigue o chiaramente male intenzionate. E nonostante i fatti narrati abbraccino un arco temporale piuttosto breve, il film arriva anche a mostrare come, simili circostanze, costringano Rag a una rapida maturazione, tanto da farle smettere, improvvisamente, i panni della bambina, per cominciare a vestire quelli di una persona adulta, ormai pienamente consapevole del suo destino senza speranza. E’ con questa bellissima (e nello stesso tempo tragica) scena che Affleck decide di chiudere la pellicola: è la figlia, ora, a incoraggiare il padre stremato e demoralizzato. E lo fa utilizzando una frase della madre (diventata un esempio di tenacia a cui fare riferimento) che, ormai, esiste solo nei racconti di lui.
Concludiamo con un breve accenno all’ottima prova della piccola Anna Pniowski, che, nonostante la giovane età, denota già una sicurezza e una capacità espressiva da attrice navigata. Speriamo solo che non faccia la fine di tanti altri bambini prodigio di cui è stracolma la storia del cinema, troppo presto glorificati, ma altrettanto velocemente finiti nel dimenticatoio.