Sam Wilson (Anthony Mackie) non crede di essere pronto a diventare il nuovo Captain America, pertanto dona lo scudo ricevuto da Steve Rogers al governo americano. Nel frattempo, Bucky Barnes (Sebastian Stan) prova a fare i conti con il suo passato come Soldato d’Inverno.
Nazione: Stati Uniti
Anno: 2021
Episodi: 6
Piattaforma: DisneyPlus
Genere: Supereroi, sentimentale, drammatico
Ideatore: Jac Schaeffer
Attori: Sebastian Stan, Anthony Mackie, Wyatt Russell, Erin Kellyman, Georges St-Pierre
Messi in archivio gli sperimentalismi di WandaVision, i Marvel Studios tornano alla tradizione con una miniserie di sei episodi, che riunisce due dei principali comprimari dei film dedicati a Captain America. In realtà, nei piani di Kevin Feige The Falcon and the Winter Soldier doveva essere lo show d’esordio della nuova era televisiva del MCU, ma il Covid-19 ha determinato una lunga interruzione delle riprese, che ha fatto slittare l’uscita in streaming su Disney+ fino alla metà di marzo di quest’anno. Non che questo abbia rappresentato un problema per gli spettatori, in quanto le due serie non mostrano alcun legame diretto, anche se entrambe – benché in modo molto diverso – si ricollegano al finale di Avengers: Endgame. Qui, nello specifico, dopo un inizio adrenalinico, caratterizzato da una spettacolare scena di combattimento in volo (che non ha nulla da invidiare a quelle viste nei lungometraggi per il cinema), ritroviamo un Sam Wilson riluttante all’idea di vestire i panni dell’eroe simbolo della Seconda Guerra Mondiale, in un intenso passaggio utilizzato per introdurre uno dei temi portanti del soggetto, l’accettazione di sé stessi, che per Sam diventa l’ostacolo da superare per raccogliere l’eredità di Steve Rogers, mentre per Bucky rappresenta un passo necessario per riuscire a convivere con un passato doloroso. In verità, lo showrunner Malcolm Spellman (noto, soprattutto, per aver scritto alcuni episodi di Empire) inserisce le vicende personali dei due protagonisti all’interno di uno scenario molto più ampio, che tocca questioni come il razzismo o l’immigrazione clandestina, le quali di rado vengono associate agli eroi in calzamaglia. La serie, infatti, si distingue fin da subito per una forte connotazione politica, che si manifesta prima con l’ingresso dei Flag-Smasher, intelligente rielaborazione live del villain Karl Morgenthau (da cui la Karli Morgenthau interpretata dalla brava Erin Kellyman), poi con la comparsa di Isaiah Bradley, il cosiddetto Captain America nero. Difficile non vedere in queste due sottotrame un parallelismo con argomenti di cronaca come il movimento Black Lives Matter e l’allargamento del muro di separazione tra USA e Messico, che per lungo tempo hanno catturato l’attenzione dei media americani. Non bisogna dimenticare, infatti, che i lavori della miniserie sono iniziati durante la corsa per la Casa Bianca ed è nota l’aperta ostilità di gran parte di Hollywood verso l’amministrazione di Donald Trump. D’altra parte, The Falcon and the Winter Soldier non fa altro che riportare su schermo quanto visto sulle pagine degli albi Marvel fin dagli anni Sessanta, quando Stan Lee e i suoi collaboratori utilizzavano le loro storie come metafora del mondo reale. Oltretutto, l’alter-ego di Sam Wilson è stato il primo supereroe afroamericano a comparire nei fumetti (non il primo di colore, perché il titolo spetta a Black Panther) e le avventure di Captain America – soprattutto a partire dagli anni Settanta – hanno spesso messo in luce le tante contraddizioni della società statunitense. Non sorprende, quindi, che tra i comprimari compaia anche John Walker, creatura del compianto Mark Gruenwald (così come lo è pure Karl Morgenthau), un autore capace di affrontare temi complessi anche all’interno di un contesto popolare come il fumetto supereroistico. Nella sua lunga gestione del Vendicatore a Stelle e Strisce, il clima politico e sociale degli Stati Uniti dell’epoca faceva spesso da sfondo alle storie di Steve Rogers e Walker, la cui prima apparizione su carta risale al 1986, era la perfetta incarnazione dell’America reaganiana, quando gran parte della popolazione credeva fermamente nella superiorità morale dello Zio Sam, tanto da non farsi troppe domande sui metodi discutibili con cui gli USA imponevano la propria visione del mondo a tutti gli altri. La versione propostaci da Spellman conserva essenzialmente quelle caratteristiche, dando a intendere che un certo modo di pensare all’interno delle istituzioni americane è lungi dall’essere diventato un semplice residuato della Guerra Fredda. Un concetto che viene sottolineato con lo scioccante finale del quarto episodio, che vede protagonista proprio il nostro John. Ma, a prescindere dalle similitudini con l’attualità degli Stati Uniti, l’abilità con cui tanti piccoli pezzi dell’Universo Marvel vengono rimaneggiati e aggiornati, per poi essere integrati in maniera coerente all’interno del MCU non finisce mai di sorprendere (nella serie assistiamo anche all’esordio dell’affascinante Madripoor, fittizia città-stato asiatica teatro di tante storie degli X-Men e, per questa ragione, preclusa ai Marvel Studios fino a poco tempo fa), così come impressiona in senso positivo la solidità della continuity interna di tutto il franchise (che qui si manifesta con i ritorni di Batroc e della wakandiana Ayo) o il costante inserimento di nuove sottotrame, foriere di futuri, intriganti sviluppi (l’entrata in scena della Contessa Valentina Allegra de la Fontaine e, ancora di più, la clamorosa svolta narrativa legata a Sharon Carter). Ciò nonostante, bisogna dire che la scrittura evidenzia in più punti anche diverse cadute di tono. Per esempio, il tentativo di trasformare la serie in una sorta di scanzonato buddy movie sullo stile di The Nice Guys e Arma letale ci è parso molto velleitario, soprattutto perché assolutamente non in linea con il carattere dei protagonisti (Bucky in particolare, che, per non contraddire quanto abbiamo imparato su di lui nei film, è sempre ombroso e taciturno) o, come scritto sopra, per le tematiche affrontate dalla vicenda. Tra l’altro, il brusco cambio di registro che si osserva dal quarto episodio in poi ci fa pensare che anche la produzione si sia resa conto della palese incoerenza del soggetto e, complice lo stop per la pandemia, abbia deciso in corsa di rinunciare all’ironia, per drammatizzare ancora di più gli eventi. Inoltre, ci è parsa francamente incomprensibile la scelta di arrivare al cambio di costume e (soprattutto!) di alter ego da parte di Sam (sapientemente enfatizzato, al contrario, nei titoli di coda) con un’entrata in scena del personaggio, all’inizio dell’ultimo episodio, totalmente priva di pathos (in questo caso, tuttavia, le colpe devono essere condivise con la regia troppo accondiscendente di Kari Skogland, decisamente più efficace in altre parti della serie). Capiamo la volontà di porre l’accento su temi più importanti, ma, alla fine The Falcon and the Winter Soldier resta pur sempre un serial supereroistico. Infine, anche nel ripescaggio di Zemo non tutto funziona come dovrebbe, tanto che l’apprezzabile decisione di avvicinare il character alla sua controparte cartacea, in alcuni momenti si riduce a fan service puro e semplice. L’esempio più eclatante è la scena in cui il buon Helmut indossa il tipico passamontagna viola con cui è conosciuto nei fumetti, che non trova nessuna spiegazione logica dal punto di vista della trama. Per di più, la tragicità della sua figura, legata alla perdita della sua famiglia, viene lasciata volutamente sullo sfondo, nel vano tentativo di rendere il personaggio la causa di ulteriori battibecchi tra i due protagonisti. Fortunatamente, l’ottima interpretazione di Daniel Brühl riesce a far passare quasi in secondo piano le scelte infelici degli autori, facendoci anche sperare che Zemo possa presto svolgere un ruolo ben più rilevante all’interno del MCU. Restando agli attori, Anthony Mackie e Sebastian Stan pagano un po’ i difetti della sceneggiatura, risultando molto più credibili quando i due protagonisti tornano alla loro caratterizzazione originale (sebbene Bucky in diversi passaggi risulti comunque un po’ sacrificato). Guardando poi velocemente al resto del cast, ci piace sottolineare soprattutto la prova di Wyatt Russell, molto bravo nel saper trasferire su schermo la personalità ambigua di John Walker.Infine, tra gli ulteriori aspetti positivi della serie, vanno almeno ricordate le numerose sequenze action, non solo le due pirotecniche battaglie nei cieli, che segnano l’inizio e l’epilogo della trama, ma anche i vari scontri corpo a corpo, coreografati in maniera impeccabile.In conclusione, al netto dei problemi di sceneggiatura di cui abbiamo detto e di un finale un po’ troppo retorico, The Falcon and the Winter Soldier segna un altro colpo messo a segno dai Marvel Studios e conferma ancora una volta che il trionfo della Saga dell’Infinito non rappresenta il punto di arrivo del MCU, ma solo una tappa importante all’interno di un percorso più lungo, già avviatosi verso nuove direzioni.
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