Nazione: Stati Uniti
Anno: 2019
Piattaforma: Sky Atlantic
Genere: Drammatico
Creatore: Charlie McLean
Episodi: 10
Attori: Kevin Bacon, Aldis Hodge, Jonathan Tucker, Mark O’Brien, Lauren E. Banks
Voto Filmantropo:
Appena arrivato a Boston, il giovane assistente procuratore Decourcy Ward (Aldis Hodge) viene coinvolto in un’inchiesta riguardante la rapina di un furgone blindato. Frustrato per lo scarso aiuto ricevuto dalle istituzioni, decide di allearsi con Jackie Rohr (Kevin Bacon), un agente del FBI noto per la sua condotta per nulla irreprensibile.
Si parla tanto in City on a Hill, nuova serie televisiva di Showtime, e soprattutto si discute di cose di cui noi italiani sappiamo poco o nulla. Della Boston dei primi anni Novanta ricordiamo solo le ultime gare da professionista di Larry Bird con i Celtics e non molto altro. I nomi di Charlestown o Roxbury (due dei quartieri della città, ampiamente citati nello show) non provocano in noi nessuna reazione (sarebbe stato diverso invece, se la vicenda fosse stata ambientata a Brooklyn o nel Queens), eppure è lì che si muovono i protagonisti di questo insolito noir, che nelle intenzioni degli autori avrebbe dovuto essere una ricostruzione romanzata del cosiddetto “miracolo di Boston”, la repentina diminuzione della criminalità giovanile, che in quel periodo affliggeva la capitale del Massachusetts, ottenuta grazie allo sforzo congiunto di istituzioni cittadine e forze dell’ordine. Un argomento forse interessante per gli americani, ma davvero poco significativo per il resto del mondo. Dando un’occhiata ai nomi dei produttori, tuttavia, scopriamo che tra questi ci sono Ben Affleck (che aveva già ambientato nel quartiere di Charlestown il suo The Town) e Matt Damon (nato nei pressi di Boston), i quali, evidentemente desiderosi di dedicare una serie alla città dove sono cresciuti, hanno coinvolto nell’operazione importanti personalità di Hollywood come Tom Fontana, James Mangold e Barry Levinson, sicuramente fondamentali a ottenere dai vertici della CBS (proprietaria di Showtime) il via libera per lo show. Strano, quindi, che come autore di quest’ultimo, figuri lo sconosciuto Chuck MacLean il quale, bisogna ammetterlo, rielaborando un’idea concepita assieme allo stesso Affleck, si è sorprendentemente dimostrato molto abile a svolgere il compito assegnatogli, mostrandoci una Boston corrotta fino al midollo, in cui la differenza tra buoni e cattivi appare spesso molto sottile, e dove chi cerca di portare dei miglioramenti alla città viene subito isolato o peggio, deriso. Lo sceneggiatore americano sceglie di non puntare i riflettori solo su pochi protagonisti, ma di dedicare ampio spazio anche a parecchi personaggi secondari. E così inevitabilmente, anche i criminali e le loro famiglie diventano parte integrante della vicenda. Proprio per questo, per lo spettatore risulta ancora più difficile distinguere tra cosa è bene e cosa è male: per quanto Jonathan Tucker (che interpreta il capobanda Frankie Ryan) si riveli meno espressivo di un blocco di marmo (molto meglio Amanda Clayton nei panni di sua moglie), la difficoltà del suo personaggio a far quadrare i conti di casa, che lo costringe a organizzare di continuo nuove rapine, non porta il pubblico a vederlo necessariamente come il cattivo di turno.
Nello stesso modo, anche l’idealista Decourcy Ward (un efficace Aldis Hodge) spesso è costretto a scendere a compromessi, pur di mettere fine al diffuso malaffare delle istituzioni, e sebbene questo sia indiscutibilmente un nobile obiettivo, a volte si ha l’impressione che esso sia solo il mezzo che egli ha deciso di utilizzare per fare carriera politica. Persino il cinico agente del FBI Jackie Rohr (un grande Kevin Bacon, autentico mattatore della serie), nonostante non mostri il minimo rispetto nei confronti della moglie, non si faccia scrupoli a sacrificare i suoi informatori o a sfruttare il lavoro dei colleghi, e a commettere tutta una serie di altre nefandezze, quando ci viene mostrato nella sua quotidianità, e in particolare nel rapporto con sua figlia, diventa un normale essere umano. Questa coralità così articolata e variegata, costruita con personaggi ben caratterizzati, costituisce il risultato migliore di MacLean e, indiscutibilmente, la vera attrattiva della serie. Anche i lunghi dialoghi tra i personaggi, a cui abbiamo accennato all’inizio, sarebbero da annoverare tra le qualità dello show, ma sebbene i gustosi duetti tra l’agente Rohr e il procuratore Ward siano sempre tra i momenti più attesi di ogni episodio, essi sono difficilmente associabili a due personaggi di quel tipo, e a volte, sembrano niente di più che uno sfoggio di bravura un po’ narcisistico da parte dello sceneggiatore (un’impressione accentuata anche dalla scelta di utilizzare titoli troppo ricercati per i vari episodi e superflui riassunti all’inizio degli stessi). D’altra parte, proprio l’eccessiva circoscrizione degli eventi alle vite dei protagonisti, rende vano il tentativo di rievocazione di quegli anni così travagliati per la città (la delinquenza giovanile si intravede appena, così come le misure per contrastarla). MacLean, infatti, è evidentemente più interessato a mostrarci come le scelte delle persone siano generate da marcate differenze sociali o, semplicemente, da visioni del mondo discordanti, finendo, però, per sacrificare la realtà storica a favore di sottotrame, onestamente, poco interessanti, come quella che vede coinvolto un pastore protestante accusato di molestie sessuali.
Forse lo sceneggiatore americano, ansioso di dimostrare le sue qualità, ha usato la serie più come una vetrina per sé stesso, che per arrivare all’obiettivo con cui era stata concepita. Vedremo, comunque, come andranno i nuovi episodi, anche se l’epilogo di questa prima stagione non sembra preannunciare un repentino cambio di direzione.